Ogni anno vengono utilizzati in Italia 1 milione e 475mila quintali di pesticidi nei campi italiani. Ogni quintale, ricordiamocelo, è fatto di 100 chili. È un bel peso di prodotti chimici quello che si distribuisce nei piatti di tutti noi. E se è vero che sono pochi i singoli prodotti alimentari convenzionali che risultano fuori norma alle analisi puntuali, nessuno ha mai indagato su cosa fa lo zero-virgola-qualcosa di residuo di pesticidi aggiunto allo zero-virgola-qualcosa aggiunto alla zero-virgola-qualcosa e così via.
Gli effetti nefasti per la salute umana delle sostanze chimiche usate sui campi sono conosciuti – anche se non sempre hanno portato alla loro immediata eliminazione, vedi il caso del glifosato. E mancano ancora le cifre di quanto fa male l’interazione di diversi composti chimici, di quanto impatta sulla nostra salute.
A occhio e croce, tanta commistione di chimica di sintesi nei nostri stomaci e nei nostri corpi, bene non fa. Lo dico da cittadino, oltre che da presidente dell’associazione che raccoglie le 33 sigle di agricoltori che fanno il bio, di distributori che lo portano ai negozi, di persone che lo vendono. Eppure, in questo quadro non certo brillante per l’agricoltura e la tavola di cosa si preoccupa una parte dell’accademia italiana, coadiuvata da qualche media?
Del fatto che il biodinamico sia o non sia una pseudoscienza. Negli ultimi tempi, prima una lettera infuocata di una società scientifica importante diretta contro un’Università – quella di Napoli – colpevole di aver collaborato a un convegno e di aver avviato delle ricerche scientifiche per cominciare a valutare l’efficacia di alcune scelte colturali. Poi articoli, alcuni firmati da nomi importanti della ricerca italiana che ribadiscono: la biodinamica è un’accozzaglia (per usare una parola di moda) di stregoni dediti a oscuri rituali. Che se ne stiano nel loro medioevo.
Per chi non lo sapesse, il biodinamico è il primo in ordine di tempo dei metodi agricoli biologici. Non solo, come per tutto il biologico, non utilizza pesticidi e diserbanti, ma cura particolarmente la fertilità della terra, assicurandone non solo la qualità dei prodotti ma anche la tenuta. Utilizzando preparati particolari, anche il cosiddetto cornoletame, nome che tanto fa scandalo ma che è solo un affinamenti dei concimi animali.
Ora – a parte il fatto che il biodinamico non è né una scienza né una pseudo scienza, ma un metodo agricolo valido, che fa fatturati importanti e in crescita nel mercato interno e nell’export – quello che una ricerca orientata alla salute umana e ambientale potrebbe fare è chiedersi se e perché funziona. Non ci sono i soldi per farlo? Questo può essere un buon motivo.
Ma mettersi di mezzo quando alcuni ricercatori cominciano a interrogarsi su come funziona l’agricoltura biodinamica suona o come una preclusione intellettuale o come la volontà di parlare sempre e soltanto per conto del mainstream economico. Di certo, l’industria chimica ha i fondi per la ricerca, per inventare prodotti sempre più pesanti e pervasivi perché il suolo agricolo impoverito e avvelenato necessita di sempre maggiori dosi di chimica, come un tossicodipendente.
Il biologico non ha alle spalle le multinazionali, ha bisogno di ricerca pubblica e libera. Ci serve per capire come fare meglio, come aumentare la produttività di suoli che non si vogliono drogare ma curare, e ci serve anche per capire quali macchinari possono risparmiare i lavori più faticosi. Noi, tutto mondo del biologico finalmente unito, chiediamo questo: che la scienza aiuti chi cura la terra e non chi la impoverisce, chi produce rispettando la natura e non chi la distrugge, chi produce cibo buono e sano. Questo è un invito e anche una sfida. Chi ci sta?

Fonte: Huffington Post Italia