Rispetta l’ambiente, la biodiversità, i consumi sono in crescita ma il dibattito sul bio resta aperto. Il parere di Paolo Carnemolla, presidente di FederBio
Biologico si, biologico no: mente i consumi continuano a crescere al ritmo del 10% l’anno, il dibattito resta aperto. L’agricoltura bio rispetta l’ambiente, ma i prodotti sono costosi. Tutela la biodiversità e assicura varietà, ma ha rese produttive inferiori rispetto a quella convenzionale, mentre intanto il fabbisogno nutrizionale del pianeta continua a crescere. Un tema caldo ora più mai dato che, dopo essere stato approvato alla Camera, in Senato di discute di un progetto di legge sul biologico che se, approvato, potrebbe incentivare il settore e favorire le oltre 75mila aziende che in Italia già seguono questo tipo di metodo produttivo.
Secondo lei il futuro dell’agricoltura mondiale è bio? Perché?
«Si, e non solo secondo me: in ballo c’è il futuro del pianeta e l’agricoltura biologica è l’unica via per permettere all’ambiente in cui viviamo di sopravvivere. Gli studi confermano che può essere anche la risposta alla crescente richiesta di cibo, a patto che contemporaneamente cambino gli stili alimentari. In particolare, è fondamentale ridurre il consumo di carne allevata in modo intensivo perché sono gli allevamenti ad avere un maggiore impatto ecologico. Se i terreni usati per gli allevamenti intensivi e per produrre cibo per questi stessi allevamenti fossero convertiti, ci sarebbe cibo bio per tutti».
Quali sarebbero i vantaggi per l’ambiente e le persone di una conversione totale al biologico?
«I vantaggi sarebbero diversi: la biodiversità sarebbe tutelata, l’acqua non sarebbe più inquinata da pesticidi perché l’agricoltura bio non li contempla e inoltre il biologico rispetta gli animali e il loro benessere. Si ristabilirebbe anche il giusto equilibrio tra produzione agricola, tutela delle risorse ambientali e fabbisogno di cibo perché si produrrebbe riducendo gli sprechi. Oggi l’agricoltura convenzionale copre il 97% dei terreni a livello mondiale e produce in eccedenza, ma intanto 800 milioni di persone muoiono di fame e altrettante soffrono di obesità e malattie legate alla cattiva alimentazione. Infine con una conversione totale al biologico sarebbe abbattuto il rischio della contaminazione degli alimenti con le sostanze chimiche tossiche utilizzate nell’agricoltura convenzionale e si supererebbe il pericolo dell’antibiotico-resistenza derivante dall’abuso di questi farmaci negli allevamenti convenzionali intensivi: per l’OMS questa è la più grave emergenza sanitaria globale».
Dal punto di vista nutrizionale, che differenze ci sono tra cibo bio e non bio?
«I valori nutrizionali dipendono da un ampio ventaglio di fattori di tipo genetico, dalle tecniche di coltivazione, dall’andamento climatico e dalle zone di produzione: per esempio una varietà di mela ha differenze anche importanti rispetto a un’altra. Oltre a questo, un prodotto di agricoltura convenzionale, coltivato con concimi azotati, oltre a perdere di sapore, è meno nutriente perché vitamine, sali minerali e sostanze antiossidanti come i polifenoli sono più diluiti dalla maggior quantità d’acqua che proprio i fertilizzanti inducono nei tessuti del frutto. Anche per questo un prodotto bio può essere un po’ più piccolo, magari meno lucido, ma è mediamente più gustoso e presenta un contenuto di micronutrienti maggiore. Uno esempio tra gli eclatanti è il latte: quello proveniente da allevamenti bio ha una composizione di acidi grassi omega 3 (ovvero grassi buoni, ndr) più elevata rispetto al latte convenzionale».
Quanto impattano sull’ambiente gli agenti chimici usati in agricoltura convenzionale?
«Dipende dalle culture. Nel caso di colture specializzate come verdure e ortaggi l’impatto è rilevante perché si fanno fino a 20 trattamenti chimici a stagione. In particolare, si impatta fortemente sui terreni con diserbanti come il glifosato che inquinano anche le acque e riducono la biodiversità del suolo, poi ci sono altri trattamenti chimici specifici contro gli insetti, che distruggono la biodiversità. È davvero preoccupante la progressiva riduzione di insetti utili come le api e altri impollinatori, sentinelle della biodiversità».
Le coltivazioni bio proibiscono ogni tipo di chimica o ci sono sostanze consentite?
«Sono consentiti solo prodotti di origine minerale e naturale specificatamente individuati, quali rame e zolfo: servono a proteggere la pianta dai funghi, ma a differenza dei fungicidi usati in agricoltura convenzionale non sono sistemici, cioè non entrano nel ciclo linfatico della pianta pervadendo anche la polpa dei frutti. Rimangono solo sulla buccia, da dove scompaiono con il semplice lavaggio domestico. In ogni caso, rame e zolfo sono sali minerali normalmente presenti negli alimenti, non sono molecole costruite in laboratorio. Significa che se prendo una mela bio posso lavarla e mangiarla con la buccia con la certezza di non ingerire residui chimici. Secondo i dati ufficiali sui prodotti di produzione italiana, invece, il 60.6% delle mele convenzionali, il 65.5% delle pesche e il 67.9% dell’uva presentano residui di una o più sostanze chimiche di sintesi. Altri trattamenti consentiti in agricoltura biologica sono microrganismi o insetti utili come le coccinelle, che si nutrono di altri insetti che attaccano le piante. Si ricorre anche alla confusione sessuale, diffondendo i feromoni sessuali che emette la femmina dell’insetto bersaglio: il maschio non è più in grado di localizzarla e di fecondarla, e questo è un modo assolutamente «pulito» per evitare la riproduzione di organismi nocivi».
Le coltivazioni bio non hanno le stesse rese produttive di quelle convenzionali. Se diventassero tutte bio ci sarebbe cibo per tutti?
«Si, le coltivazioni bio hanno una resa produttiva che attualmente è in media del 20% inferiore rispetto a quelle convenzionali. Ma è anche vero che assicurano produzioni più stabili nel tempo dato che un terreno ricco di sostanza organica è più resiliente ai cambiamenti climatici perché trattiene più acqua rispetto a terreni impoveriti da coltivazioni convenzionali in monocoltura. Se cambieremo stile di alimentazione tornando ad orientarci verso la dieta mediterranea, di cui ci vantiamo senza praticarla totalmente, e convertiremo al biologico gli allevamenti intensivi e i terreni dedicati attualmente alla produzione di cibo per questi allevamenti, il biologico sarà in grado di produrre cibo sufficiente anche per una popolazione mondiale più numerosa. Non bisogna dimenticare lo spreco alimentare: attualmente buttiamo via il 30% del cibo prodotto con agricoltura convenzionale, che spesso viene coltivato in Africa e Sud America in maniera intensiva. Si tratta soprattutto di cereali, soia e frutta tropicale destinati all’ esportazione mentre le popolazioni locali soffrono la fame. Questo è un sistema squilibrato, che non può più reggere».
Per guadagnare terreni per produrre di più con il biologico, dovremmo deforestare ancora?
«Assolutamente no, oggi non c’è un solo ettaro coltivato in biologico nel mondo che sia stato sottratto alle foreste. Tutti i terreni deforestati attualmente sono usati per coltivare mais o soia ogm, palma da olio e altro in convenzionale. Anzi, il biologico potrebbe essere un’ottima soluzione anche per rimettere a coltura quei terreni che in Italia sono stati abbandonati dagli agricoltori perché non rendono più a sufficienza, dato che i prezzi dei prodotti agricoli sono rimasti quelli di trent’anni fa, mentre il costo di concimi, pesticidi, meccanizzazione e manodopera si è moltiplicato. Anche questo è un sistema malato: con prezzi così bassi c’è chi ricorre alla moderna schiavitù del caporalato o prova a produrre di più per non fallire. Si tratta, però, di un’eccedenza che non solo non serve, ma che fa anche abbassare ulteriormente il valore di mercato dei prodotti. Il caso del latte dei pastori sardi mostra quali possono essere le conseguenze».
Quali sono le soluzioni per dare da mangiare a tutti in un eventuale futuro di agricoltura prevalentemente biologica?
«Cambiare lo stile alimentare, e cioè mangiare meno carne e più proteine vegetali oltre che variare maggiormente l’alimentazione: così si potrebbe ridurre drasticamente l’utilizzo di terreni usati per gli allevamenti convertendoli al bio. Farebbe bene contemporaneamente alla nostra salute, perché un’alimentazione troppo ricca di grassi animali e alimenti eccessivamente raffinati e manipolati causa malattie che comportano anche una rilevante spesa sanitaria. Quello che crediamo di risparmiare comprando cibo convenzionale a basso prezzo lo paghiamo assai più caro come collettività».
Il bio è un cibo costoso e d’élite. Chi non può permetterselo, cosa dovrebbe fare?
«Attualmente l’incidenza della spesa per alimenti sul bilancio familiare secondo l’ISTAT non è superiore al 18%, dunque non è certo un aumento di questa spesa a incidere pesantemente sui conti di una famiglia, soprattutto se non è numerosa. Non si può negare che i prezzi del bio talvolta siano determinati da margini di guadagno più alti, ma all’agricoltore produrre costa di più: non riconoscere questi costi, così come i benefici ambientali che derivano dalla sua attività, non incentiva l’adozione di tecniche di produzione ecosostenibili di cui abbiano necessità. Ci sono anche altre motivazioni più tecniche da cui deriva il prezzo dei prodotti bio: ci sono i costi della certificazione e l’obbligo di confezionare il prodotto per garantire il consumatore. Occorre considerare però anche altri aspetti: i prezzi possono variare a seconda di dove si fa la spesa, il prezzo più alto favorisce acquisti più attenti e quindi meno sprechi, e poi prodotti come le uova da galline bio libere di razzolare, che costano il doppio di quelle degli allevamenti convenzionali in gabbia, hanno comunque un prezzo contenuto per essere un alimento completo».
Cosa ne pensa dell’agricoltura biodinamica? È tacciata di essere una pratica poco scientifica e più simile alla stregoneria.
«Mi pare antiscientifico sostenere che la biodinamica è antiscientifica e rifiutare così di fare ricerca. Fino a prova contraria, chi fa biodinamica produce alimenti a basso impatto ambientale e senza rischi sanitari, validi da un punto di vista qualitativo e nutrizionale. Non è stregoneria, ma un modo particolare di fare buona agricoltura che fa bene all’ambiente e alle persone».
Fonte: Vanityfair
Autore: Fabiana Salsi; Paolo Carnemolla