Lo scudo antifrode nel bio è aperto. L’appetito della criminalità pare destinato a rimanere insoddisfatto. Almeno quando i loschi affari si concentrino sulle granaglie di agricoltura biologica. Su queste materie prime – principale obiettivo dei truffatori – è infatti attivo il database di Federbio. Uno strumento che ha già disinnescato nuovi tentativi di corrompere il settore dell’agricoltura pulita.
Ne parliamo con Paolo Carnemolla, presidente di Federbio, l’organizzazione nazionale di rappresentanza del settore. Con il quale affrontiamo anche altri temi cruciali, dall’andamento dei prezzi nel bio alla resistenza delle organizzazioni agricole tradizionali.
Dal primo gennaio 2017 opera a pieno regime una banca dati antifrode sui prodotti di agricoltura biologica. Come funziona?
FIP, Federbio Integrity Platform, (www.Fip.bio) è attiva dal 2016 ma dal primo gennaio 2017 è obbligatoria per i certificatori associati a Federbio. 8 dei 14 autorizzati, ma che rappresentano il 90% dei controlli sul biologico Made in Italy. La banca dati registra ogni informazione su mangimi, cereali e granaglie. E a novembre sarà operativa anche per l’olio di oliva.
Sul funzionamento, in sintesi, gli organismi di certificazione inseriscono nel database i documenti relativi a certificazioni, superfici, colture e produzioni. La piattaforma incrocia queste informazioni con i documenti delle transazioni. Verificando le notizie contenute nei documenti di trasporto: acquirente, quantità, tipologia.
A ogni transazione inserita nel database, il sistema accerta la congruità dei dati. Emerge così all’istante se l’agricoltore ha venduto merci che non poteva vendere perché non le produce, o non dispone di quella quantità o ha i documenti di certificazione scaduti. In quel caso, scatta l’allerta. Vengono informati sia gli operatori che vendono e acquistano, sia i certificatori. I quali si attivano e vanno a vedere cosa è successo.
Una procedura efficace, che solo un intervento tardivo può vanificare. Chi controlla i controllori?
Nel database sono registrati anche i tempi di intervento. Ciò permette ad Accredia e al ministero delle Politiche agricole di controllare il buon operato dell’organismo di vigilanza.
Dall’attivazione di questa piattaforma avete scoperto frodi?
C’è un lavoro quotidiano. L’allerta scatta anche se il documento non è aggiornato. All’inizio abbiamo registrato numeri importanti, con un 30-40% di allerta. Ma si trattava per lo più di casi di disallineamento dei dati o carenze documentali. Alcuni certificatori ancora resistono, non si adeguano alle procedure e fanno scattare l’allerta. Non quelli associati a Federbio.
Oltre a questi “falsi positivi” causati dai certificatori, avete registrato vere e proprie frodi?
Vi sono stati alcuni casi. Per incongruità delle quantità vendute e anche in situazioni di colture non registrate. C’è stato chi, a causa di pioggia o gelate, ha cambiato tipo di coltura senza aggiornare quella registrata in banca dati.
In altri casi invece abbiamo sorpreso chi non sapeva dell’esistenza della piattaforma e ha tentato di vendere prodotti non conformi. L’operatore in pochi giorni è stato sospeso. Prima che il prodotto fosse immesso sul mercato, perché con questo sistema si interviene nella fase di acquisto presso l’agricoltore. Il database serve per prevenire non per gestire le frodi, come abbiamo fatto finora.
Il rapporto sulle agromafie di Eurispes stima il fatturato derivante dalla contraffazione nell’agroalimentare in quasi 29 milioni euro, con un aumento del 30% nel 2015. Il nuovo database sul bio però incrocia solo i dati sulle granaglie. Non è troppo poco per sventare nuove frodi?
L’agroalimentare è un settore molto appetibile per la criminalità. Le sanzioni penali sono lievi, poiché il reato di frode viene spesso punito con la sola sanzione pecuniaria. Per questo, se si vuole riciclare denaro è più facile agire in questo settore che in altri. Ma la fase più a rischio è quella delle materie prime. Si movimentano grandi quantità di prodotto, specie nelle importazioni. E i margini rasentano il doppio del valore della materia prima acquistata all’estero. Si tratta di navi da 3mila tonnellate. Su un prodotto che vale 500 euro a tonnellata significa fare milioni di euro.
La frode sulle materie prime è più redditizia rispetto a quella sul prodotto finito, e quest’ultimo a sua volta è soggetto a maggiori controlli, anche da parte delle aziende a valle della filiera. Infatti, le frodi che abbiamo scoperto e dovuto gestire negli ultimi anni erano tutte sulle materie prime.
Il vino bio continua a conquistare quota. Esiste un sistema rafforzato di controlli?
Il vino non è tra i prodotti a rischio. Fino a poco tempo fa si negava che potesse esistere il vino bio. Ora cresce, grazie a cantine serie che vi si impegnano con un approccio serio. È un settore virtuoso di conversione al bio. Poi c’è da distinguere il vino di qualità da quello della cantina sociale, o lo sfuso. E qui qualche problema c’è stato. Con casi di annacquamento, soprattutto. Capita con aziende straniere che comprano le cisterne di vino italiano e poi imbottigliano all’estero. L’origine è italiana. Ma non si sa chi abbia aggiunto l’acqua.
Il database FIP però non può rilevare eventuali casi di falso bio. Il rapporto appena pubblicato dall’Ispettorato frodi del ministero delle Politiche agricole ha mostrato un settore idilliaco. Neanche un campione bio con residui di pesticidi. Ma si tratta di un controllo su circa 150 campioni. Nella realtà chi controlla?
I residui di pesticidi sono tutt’altro tema. I controlli dell’Ispettorato frodi sono random. Gli organismi di certificazione operano invece sulla base di appositi protocolli. Hanno l’obbligo di verificare almeno il 10% delle aziende ogni anno, ma ne fanno il 20%. I nostri controlli sono mirati, si va certamente dove si sa che c’è un sospetto o anche solo un rischio di contaminazione accidentale, come nelle aziende miste, con coltivazioni convenzionali e bio. Si sceglie il periodo dell’anno più appropriato.
In particolare sull’ortofrutta opera un tavolo che prevede piani di controllo, interventi mirati in caso di crisi territoriali e un sistema di allerta fitopatologico. Informando gli organismi e le aziende agricole sulle condizioni meteo e le conseguenze sulle colture si consente una facile analisi del rischio. Non c’è tracciabilità, ma azioni comuni mirate.
Oltre ai grandi truffatori dobbiamo fare i conti con le piccole frodi quotidiane. Il rischio si annida anche nei mercatini bio. Come tutelarsi?
Lì basterebbe l’occhio attento del consumatore. È altamente improbabile che un banchetto possa avere tutta la frutta e la verdura immaginabile. Non può avere quella varietà se non è una grossa azienda agricola, che certo non va ai mercatini. Non può avere mele e arance, un prodotto tipico del Nord e un altro del Sud. Se vende pochi prodotti è già indice di serietà, vuol dire che vende quello che produce. Ma deve anche esporre la certificazione. Se non lo fa, il consumatore deve chiedere di vedere il certificato di conformità e il documento identificativo (verificandone la data di validità) che attesta anche quali tipologie di prodotto coltiva. Si vede così se l’operatore è certificato e se può avere mele o agrumi.
La risposta deve essere data al banchetto. Poi, a casa si può anche eseguire un controllo nel sito di Accredia (databio.it). E se la data di aggiornamento dei dati è vecchia bisogna chiamare il certificatore, cercandolo nella lista riportata a sinistra nella home page.
Al supermercato invece troviamo solo frutta e verdura bio confezionata. Perché?
Veniamo criticati perché l’ortofrutta bio nella Gdo o nei negozi viene sempre confezionata, con retina o contenitori, sprecando imballaggio. Ma se ciò accade c’è un motivo. Al di fuori della vendita diretta dall’agricoltore al consumatore, non si può vendere il prodotto sfuso se il punto vendita non è certificato. O i negozi si adeguano, come fanno le catene specializzate nel biologico, oppure devono confezionare.
E perché non si certificano?
Alcune lo sono già, ma per altre il vero ostacolo è di tipo organizzativo. Una curiosa circolare del ministero prevede l’obbligo di certificazione se una catena distributiva utilizza il termine “bio” o “biologico” associato alla marca. Col paradosso che “Esselunga bio” si è trovata obbligata a certificarsi e Coop – che peraltro era già certificata – avrebbe potuto farne a meno, perché nella sua linea “Vivi verde” manca la parola “bio”. Le regole sono complicate, così molti distributori preferiscono continuare a usare un po’ di imballaggio senza complicare gli oneri burocratici.
Il costo del servizio anti frode è a carico degli operatori. Finirà per tradursi in un aumento dei prezzi del biologico, già alti?
Il costo del database è di qualche centesimo di euro per tonnellata di prodotto. Non può giustificare alcun rincaro. Sui prezzi del bio invece la questione è varia. In generale sono più alti del convenzionale, con variazioni notevoli che in alcuni casi sono giustificate.
Nella zootecnia è normale e giusto che il biologico possa costare anche il doppio, rispetto a un convenzionale che magari viene dal Sudamerica (vedi lo scandalo della carne scoperto in Brasile, ndr)
È un sistema di allevamento estremamente diverso dal convenzionale. Un pollo bio richiede 4 metri quadri di spazio all’esterno. È nutrito con mangime bio, rigorosamente non OGM, e ha un ciclo di vita triplo rispetto al convenzionale. Si va dal minimo dettato dalla normativa di 80-90 giorni, fino a un massimo di 120-180 giorni, a seconda delle specie. Mentre un convenzionale in 30-35 giorni è pronto.
E gli standard saranno ben difficili da eguagliare…
Paradossalmente, nelle mense scolastiche le grammature sono tarate su misura del pollo da batteria. Lo vogliono bianco, con coscette piccole e uguali. E viene spesso rifiutato il pollo bio, il quale ha una coscia più grande e una carne più scura, e ‘sa di pollo’.
Sulle uova c’è il problema opposto: a volte ci chiamano lamentando che il tuorlo del bio è più chiaro. Ovvio, non ci sono i coloranti aggiunti ai mangimi convenzionali.
Anche lo standard della Gdo per l’ortofrutta è un problema. Si traduce in un aumento dei costi. La vogliono come quella convenzionale. E siamo spesso costretti a cedere i raccolti “non conformi” a quello standard all’industria alimentare di trasformazione. Che paga meno.
Zootecnia a parte, che ne è dei prezzi negli altri settori?
Su altri beni – come la pasta e la passata di pomodoro – il prezzo del bio può essere anche inferiore a quello della marca premium, la quale affronta i costi della pubblicità di cui il bio ha poco bisogno. Su tali prodotti un prezzo più alto dal 10 al 20% rispetto alla media di scaffale è compatibile con le rese inferiori, la filiera di dimensioni minori, la ridotta economia di scala. Il bio non ha il 20% del mercato. È al 2, al 5 e deve spalmare i costi su quei volumi.
Poi c’è la fascia di prezzi intermedia dell’ortofrutta, del fresco, dove un 20-30% di differenza è plausibile. Certo, molto dipende dall’andamento stagionale. Ci sono annate in cui è molto faticoso avere buon prodotto, le rese sono inferiori, i frutti sono meno vicini allo standard atteso e si ha più scarto. Ma ci sono anni in cui i prezzi dell’ortofrutta bio non sono distanti dal convenzionale. Con le differenze proprie della resa delle varie colture: un conto è l’uva da tavola, altro la mela. Quest’anno al Nord è andata bene, mentre al Sud ci sono stati problemi con la neve. Ora invece al Nord si fanno i conti con la siccità, che sta creando forti difficoltà, mentre al Sud va meglio.
Quindi i prezzi del bio sono nella norma. Nessuno specula?
Speculare sarebbe di corto respiro. Uno dei motivi dell’aumento del consumi del bio è che i prezzi sono in calo progressivo. E la tendenza sarà quella, con la crescente diffusione nella GDO e nei discount. Il problema è che abbiamo ancora costi fissi (logistica, personale, certificazione, scarti, rese) che incidono troppo. I consumi crescono molto – +20% nel 2016 – ma ancora rappresentano poco più del 3% dei consumi alimentari in Italia. Fatte 100 le vendite di alimenti nella distribuzione moderna, il 3% è bio. E i costi incidono su quello. Non a caso il bio costa meno nella Gdo che fa economia di scala, mentre i negozi specializzati sono meno efficienti. In prospettiva, è certo che all’aumentare del volume del bio, caleranno i prezzi.
Con una domanda in continua crescita il bio italiano non assume ancora dimensioni importanti. Perché?
Se pure raddoppiassimo i terreni coltivati a bio il prodotto non basterebbe. Il problema sono le organizzazioni agricole tradizionali, che hanno paura di perdere potere. Vuol dire acquisire tutto quello che non hanno: certificazione, competenze specifiche. Quindi sconsigliano i loro associati, o comunque non sono proattive nella spinta sul bio.
Coldiretti promuove solo la logica del km zero. Senza distinguere tra chi è più buono o bravo. Il bio deve essere solo quello a km zero.
Confagricoltura ha una federazione di produttori bio, ma resta in mezzo al guado, poiché fa più lobby a favore degli OGM che del bio. CIA invece è socio di Federbio da sempre. E negli ultimi 2-3 anni ha creato Anabio, la sua associazione dei produttori biologici. Continuando così saremo sempre costretti a importare dall’estero per rispondere alla domanda.
Fonte: http://www.greatitalianfoodtrade.it/antifrode-nel-bio-intervista-carnemolla/