«È urgente la conversione degli allevamenti intensivi puntando anche in questo caso all’approccio agroecologico che guarda al benessere animale e all’integrazione tra produzioni vegetali e produzioni animali, fondamentale per garantire la fertilità del suolo»: così Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio.
«Gli allevamenti contribuiscono in maniera determinante al riscaldamento globale, all’inquinamento dell’aria e dell’acqua. In Italia il peso della zootecnia sulle emissioni climalteranti evidenzia una chiara corrispondenza con le aree di forte concentrazione degli allevamenti. Ma non si tratta solo di questo, c’è un’altra ragione che impone una svolta verso l’allevamento sostenibile e riguarda l’aspetto etico. Le condizioni imposte in queste strutture rendono la sopravvivenza degli animali impossibile senza un uso massiccio di antibiotici e di altri medicinali, il che produce un impatto negativo anche sulla salute umana. È quindi urgente la conversione degli allevamenti intensivi puntando anche in questo caso all’approccio agroecologico che guarda al benessere animale e all’integrazione tra produzioni vegetali e produzioni animali, fondamentale per garantire la fertilità del suolo, un elemento essenziale che sta venendo a mancare in aree sempre più estese, sia in Italia che in Europa. L’aver separato agricoltura e allevamento ha trasformato il letame da risorsa in problema, creando da una parte inquinamento delle acque e del suolo e dall’altra carenza di nutrienti per il terreno. Una trappola da cui si può e si deve uscire attraverso l’approccio integrato fornito dai metodi biologici da sempre fondati sulla circolarità dei nutrienti.
Passare dall’allevamento intensivo a quello basato sul pascolo e sul metodo bio, oltre a produrre ricadute positive dal punto di vista ambientale e per il clima, può rappresentare un elemento fondamentale per la rivitalizzazione dei territori interni, delle aree appenniniche colpite dall’abbandono e costituire un valore anche sul piano sociale. Una maggiore presenza di allevamenti allo stato brado nelle aree interne si tradurrebbe in aumento dell’occupazione e la presenza di nuovi abitanti darebbe un contributo importante al riequilibrio demografico di quelle aree, importante anche per lotta contro il dissesto idrogeologico. Scorciatoie tecnologiche, come ad esempio la carne ottenuta attraverso processi di laboratorio, non solo non permettono di risolvere l’insieme dei problemi ricordati – dalla mancata integrazione del ciclo animale-vegetale alla scarsa fertilità dei suoli – ma sono in contrasto con la cultura alimentare del nostro paese e porterebbero a cambiare il profilo del settore, spostando il controllo della produzione del cibo dalle mani degli allevatori e degli agricoltori a quelle delle multinazionali e delle aziende hi-tech che vedono in questo segmento un’area per generare nuovi e consistenti profitti. Occorre puntare sul consumo di carne biologica, proveniente da allevamenti sostenibili, rispettosi della biodiversità e del benessere animale, attenti alla valorizzazione delle risorse naturali mettendo al centro la dimensione sociale nella quale sono gli agricoltori e le comunità locali i protagonisti della produzione di cibo».