Approvata a fine giugno dal Trilogo (Consiglio, Parlamento e Commissione), la Politica agricola comune (Pac) 2023-2027 per diventare operativa ha bisogno di un atto da parte dei singoli Paesi. Ogni Stato membro deve redigere entro il 31 dicembre prossimo il Piano strategico nazionale (Psn). Un passo fondamentale per poter usufruire dei fondi che valgono circa un terzo dell’intero bilancio comunitario, ma anche per poter agire in autonomia su alcuni punti strategici, come per esempio quelli legati alla difesa dell’ambiente e ai cambiamenti climatici. L’Italia è ancora lontana dalla definizione di questo piano e le preoccupazioni di arrivare tardi e male all’appuntamento aumentano. “Il 19 aprile scorso il ministro per le Politiche agricole, Stefano Patuanelli, ha elencato i principi generali, sostanzialmente condivisibili, per redigere questo piano. Principi che si rifanno al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo”, afferma Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio, “L’8 settembre ci sarà il secondo incontro: contiamo che il ministro venga con delle proposte. Per ora anticipazioni zero, ma noi abbiamo bene in mente cosa proporre per attuare una vera transizione agroecologica”.

Volete intervenire sugli aspetti della Pac poco coerenti con le indicazioni del Green Deal e penalizzanti per le piccole aziende e il biologico?

“Sì, c’erano tutte le condizioni per fare una Pac più coraggiosa perché l’attuale modello agricolo non è più sostenibile né dal punto di vista ambientale, né da quello climatico né da quello economico sociale: in Italia, ma anche in Europa, continuiamo a perdere aziende agricole, specie quelle piccole e medie, nonostante i sussidi europei. Nella prima elaborazione della Pac, quella del 2018, alle misure per il clima e l’ambiente doveva essere destinato il 25% delle risorse del primo pilastro, per i cosiddetti ecoschemi. Con il Green Deal europeo tutti si aspettavano obiettivi più ambiziosi. Invece questa percentuale non solo è rimasta, ma è slittata al 2025, mentre per gli anni 2023-2024 potrà essere ridotta al 20%: una percentuale non adeguata alle sfide che abbiamo in corso. Questo però non significa che all’interno della nuova Pac non vi siano spazi per dare più forza alla difesa dell’ambiente e quindi allo sviluppo del biologico”.

In pratica come bisognerebbe agire?

“Ogni Paese può, attraverso appunto i piani strategici nazionali, aumentare le percentuali destinate alle azioni legate al clima e all’ambiente previste dalla Pac che sono del 25% per il primo pilastro e del 35% per il secondo. L’Italia quindi può fare di più del minimo previsto. Noi di FederBio, ma più in generale come coalizione #CambiamoAgricoltura, proponiamo che sul primo pilastro – quello legato ai sussidi a pioggia alle aziende attraverso un premio a ettaro stabilito in base a ciò che producevano vent’anni fa –, si arrivi al 30% per le misure legate a clima e ambiente, premiando gli agricoltori virtuosi. Noi chiediamo che il biologico sia considerato strategico perché funzionale alla riduzione di pesticidi, di fertilizzanti chimici e degli antibiotici negli allevamenti, ma anche alla conservazione della biodiversità, alla fertilità del suolo e all’assorbimento dell’anidride carbonica”.

Dal punto di vista economico, quanti euro sono in ballo per la nostra agricoltura?

“Complessivamente ci sono 50 miliardi di euro fino al 2027. Con il Piano strategico nazionale dobbiamo puntare ad avere per il biologico almeno il doppio di quello stanziato dalla precedente Pac, che era poco più del 2,5%, e quindi 900 milioni di euro. Questo è il minimo per poter intravedere l’avvio di una vera transizione agroecologica in Italia”.

Un ruolo fondamentale nella difesa dell’ambiente e nel contrastare i cambiamenti climatici lo giocano gli ecoschemi. Quali sono quelli su cui puntare?

“Gli ecoschemi sono stati aggiunti nella nuova Pac nel primo pilastro. Un tempo l’unica misura agroambientale prevista era il greening che la Corte dei Conti europea ha di recente giudicato privo di ogni efficacia climatica e ambientale. Pensi che in Italia potevano aderire a questo finanziamento solo le aziende sopra i 10 ettari, quando la media è di 9 ettari, escludendo quelle viticole, frutticole e olivicole. Noi proponiamo poche misure di ecoschemi efficaci e senza grandi appesantimenti burocratici. Il biologico è uno di questi visto che risponde appieno a quanto indicato dal Green Deal europeo: riduzione del 50% dei pesticidi, del 20% dei fertilizzanti chimici, del 50% degli antibiotici negli allevamenti e il raggiungimento del 25% di campi coltivati con il metodo bio. Il tutto monitorato attraverso il meccanismo delle certificazioni a cui sono sottoposte le aziende. Sulla percentuale di terreno coltivato a bio in Italia chiediamo che il nostro Paese si ponga come obiettivo di raggiungere almeno il 30% delle superfici agricole entro il 2027 visto che partiamo da un 15,8% che è il doppio della media europea”.

Proporre solo il biologico per mettere in moto la transizione agroecologica non le sembra insufficiente per raggiungere l’obiettivo?

“Certo, servono anche misure semplici a cui possano accedere tutte le aziende agricole, anche quelle non bio, come per esempio l’agricoltura conservativa che punta alla minima lavorazione del terreno utilizzando macchine che gestiscono le erbe facendo la semina su sodo. Questa è una pratica agroecologica positiva. In questo caso però bisogna essere chiari nel dire che non si può più utilizzare, come accade oggi nel 90% dei casi, il glifosato. Un ecoschema che preveda l’impiego di questo diserbante non è concepibile. E anche l’agricoltura integrata, quella che prevede il ridotto impiego di pesticidi e l’utilizzo di mezzi alternativi, deve fare la sua parte alzando l’asticella della diminuzione dei prodotti antiparassitari, prevedendo nelle colture arboree, per esempio nei frutteti e vigneti, l’eliminazione dei diserbanti visto che esistono alternative valide come inerbimenti, sovesci e lavorazioni meccaniche”.

L’adesione agli ecoschemi è volontaria, non teme che le grandi aziende li ignorino?

“Io credo che ormai ci sia una buona propensione verso il biologico da parte delle aziende agricole perché i consumatori cercano sempre più questi prodotti. Nel vino la coltivazione biologica ha un grande successo: il 50% del Chianti Classico e il 70% del Franciacorta sono bio. Bisogna però mettersi al fianco dei produttori agricoli per aiutarli nella transizione agroecologica. Dando assistenza tecnica, ricerca, innovazione e formazione a partire dal biologico che può offrire soluzioni innovative anche per tutto il resto dei sistemi agricoli, che dovranno comunque puntare sulla riduzione della chimica di sintesi per raggiungere gli obiettivi del Green Deal”.

Non pensa che il poco tempo a disposizione, fine dicembre, per elaborare il Piano strategico nazionale possa impedire l’accordo su scelte coraggiose e innovative?

“La coalizione #Cambiamo Agricoltura, di cui fa parte anche FederBio, ha molto criticato i ritardi con cui ci si è messi a lavorare al Piano strategico nazionale. Noi spingeremo con tutte le nostre forze per una svolta agroecologica nell’utilizzo delle risorse della Pac nel modo che ho detto. Per dare un futuro alla nostra agricoltura: non ci possiamo permettere assolutamente di mantenere lo stato attuale delle cose”.  […]

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FONTE


TESTATA: HuffPost
AUTORE: Giorgio Vincenzi
DATA DI PUBBLICAZIONE: 4 settembre 2021