Alla terza riforma legislativa in 30 anni, occorre tenere saldi principi e valori che la fanno percepire anche ai cittadini come un’agricoltura moderna che concilia sostenibilità ambientale e sociale con sostenibilità economica.

Ci scrive Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio, federazione di rilevanza nazionale nata nel 1992 di aziende della filiera dell’agricoltura biologica e biodinamica.

Da Expo Milano 2015, il cui tema era “Nutrire il Pianeta, energia per la vita”, il dibattito sulle strategie da adottare per conciliare sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare e capacità di nutrire adeguatamente una popolazione umana in forte crescita, è diventato centrale. In quell’occasione il movimento del biologico, coordinato da FederBio attraverso l’Organic Action Network, ha raccolto la sfida e ha consegnato al Governo italiano allora in carica la Carta del Bio di EXPO Milano 2015.

Era già a quel tempo evidente come anche la sfida del cambiamento climatico rendesse obsoleto il modello dell’agricoltura industriale, dichiarato poi superato anche dalla FAO. Basato sulla chimica di sintesi e sulla forzatura dei cicli naturali per puntare a massimizzare le rese produttive delle colture vegetali e degli allevamenti industriali, a costo della biodiversità e del benessere animale, l’approccio industriale ha la necessità di concentrare la produzione e l’allevamento in aziende sempre più estese, soprattutto a danno dei grandi ambienti naturali come le foreste in Sud America o in Asia. L’aumento della distanza fra luoghi di produzione e allevamento da quelli in cui avviene il consumo mira alla riduzione dei costi di produzione del cibo, nei quali però non vengono conteggiati i costi indiretti di natura ambientale, sanitaria e sociale (il lavoro nero e forme anche peggiori di nuova schiavitù).

I sistemi agricoli e gli animali sono sistemi viventi, complessi e fortemente integrati con l’ambiente di coltivazione e di allevamento. L’illusione di poter forzare questi cicli semplificando su vasta scala tali relazioni e ignorandone le conseguenze, come se l’agricoltura fosse una fabbrica a cielo aperto, è finalmente svanita quando è apparso evidente che i costi necessari per continuare a forzare le rese produttive sono diventati insostenibili sia per la società, per esempio per il mancato rispetto del benessere degli animali allevati o l’inquinamento delle acque da pesticidi e concimi chimici, sia per gli agricoltori.

Mentre i prezzi dei prodotti agricoli a livello mondiale sono rimasti invariati o sono calati negli ultimi decenni, quelli dell’energia, della chimica, delle sementi e delle tecnologie sono costantemente aumentati.

Anche in Italia basta guardare i dati dei diversi censimenti per verificare l’ecatombe di aziende agricole e allevamenti nei decenni più recenti.

In particolare, il cambiamento climatico ci ha violentemente fatto prendere coscienza della necessità di non puntare a massimizzare le rese produttive per unità di superficie, ma a far sì che queste rese siano le più stabili possibile nel tempo, rendendo colture e allevamenti “resilienti” al contempo a siccità ed eccesso di precipitazioni, ad andamenti termici del tutto inediti e anch’essi devastanti oltre che a nuovi parassiti che in queste condizioni variate ed estreme predominano.

Questo significa avere terreni non più desertificati dall’agricoltura chimica, ma ricchi di sostanza organica e vivi perché dotati di microrganismi utili, in modo da sviluppare l’agricoltura e l’allevamento in ambienti densi di biodiversità caratterizzati da una variabilità genetica adatta alle condizioni locali e nuove. Significa anche difendere raccolti e allevamenti creando condizioni ideali che limitino la diffusione dei patogeni, come abbiamo di recente imparato con il distanziamento fisico per combattere il Covid 19, e utilizzare tecniche di lotta biologica, con organismi utili, come si sta iniziando a fare ad esempio per la cimice asiatica, contro la quale la chimica di sintesi non ha prodotto risultati.

Sono decisamente cambiate anche le necessità della popolazione, che sempre più si orienta nelle scelte alimentari secondo principi etici e salutistici almeno nei Paesi dell’Ue, Italia compresa, consapevole che non tutti gli alimenti sono uguali da un punto di vista nutrizionale e quindi della loro utilità per una vita sana. Consapevolezza che dovrebbe interessare molto anche i Governi dell’Ue, alle prese con popolazioni sempre più longeve ma non per questo più in salute, dunque con la necessità di migliorare il più possibile il benessere dei propri cittadini con la prevenzione anche per evitare le malattie legate all’alimentazione e a stili di vita sedentari, come diabete e malattie cardiache che sono ormai da anni e sempre più la vera pandemia dei Paesi Ue e occidentali.

Ecco perché banalizzare le scelte dei Governi e della nuova Commissione Ue sul Green Deal, di cui la strategia Farm to Fork è uno dei pilastri, appare francamente incomprensibile, in particolare quando si tratta di agricoltura biologica, che è l’unica forma di agricoltura sostenibile normata e certificata dall’Ue fin dal 1991, e di lavorare per una riduzione della chimica di sintesi, rispetto alla quale il punto di vista dei cittadini europei è ormai netto.

È dei soldi delle tasse pagate dai cittadini europei che stiamo parlando se si tratta di PAC e dovrebbe essere proprio l’Italia a sostenere questa strategia e a rivendicare un ruolo da protagonista, considerato che, rispetto alla media attuale di superficie coltivata a biologico in Ue, siamo già al doppio, con Regioni del Sud o interi territori del Paese che sono ben oltre l’obiettivo del 25% dettato dalla Commissione.

Proprio perché gli incentivi andranno anzitutto alla produzione e alle filiere, l’Italia, che è un Paese fortemente produttore, potrà beneficiare più di altri di queste risorse per la transizione verso il biologico della propria agricoltura, sulla cui crisi di prospettive e reddito leggiamo tutti i giorni sui media.

L’agricoltura biologica europea e anche quella italiana si stanno avviando alla terza riforma legislativa in poco meno di trent’anni di regolamentazione comunitaria. Non abbiamo dunque l’esigenza di cambiarne ancora una volta le regole, ma di tenere saldi i principi e i valori che la fanno percepire anche ai cittadini come un’agricoltura moderna che concilia sostenibilità ambientale e sociale con sostenibilità economica.

Serve certamente molta innovazione anche tecnica, ma fortemente ancorata ai principi che sono sanciti nella normativa europea per mantenere una chiara distintività dei prodotti biologici certificati rispetto a quelli dell’agricoltura convenzionale proprio a partire dalla genetica delle piante e degli animali.

LEGGI TUTTO

FONTE


TESTATA: HuffPost
AUTORE: Maria Grazia Mammuccini, Presidente FederBio
DATA DI PUBBLICAZIONE: 10 giugno 2020