La chiamano transizione ecologica. È la sfida che si vorrebbe compiere con una parte del tesoretto del Recovery plan. Sfida e ostacolo all’unica idea di sviluppo aggressivo e disuguale che abbiamo da decenni. Oggi il tema è sulla bocca di tutti anche grazie ai soldi in arrivo dall’Europa. Per molti è solo una pezza al presente obsoleto e inquinante che ha l’ambizione di rimettere in moto uno sviluppo sostenibile per raggiungere l’obiettivo del taglio delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 cercando di arrivare alle emissioni zero per il 2050.

Ma nel dibattito c’è un grande assente ed è l’agricoltura, o meglio, un nuovo modello di agricoltura che potrebbe essere un asset per ri-progettare l’Italia in linea con il Green Deal. L’Italia si conferma al primo posto in Europa per il valore della produzione delle attività agricole connesse (trasformazione, vendita diretta, agriturismo, ecc.) e al terzo posto, dopo Francia e Germania, per il valore della produzione in generale. È anche un Paese che però ha 3,5 milioni di ettari di terreni inattivi che potrebbero essere riconvertiti a pascoli o in coltivazioni, ma che giacciono vittime dell’abbandono delle zone rurali per i centri urbani. Un problema, e pure grosso. Soprattutto perché per l’Italia, l’agricoltura è un settore trainante dell’economia, che potrebbe avere a disposizione molti più terreni di quanti già ne abbia, con tutte le conseguenze positive in termini di crescita e di occupazione.

Sembra insomma che il nostro Paese non creda ancora che il settore agricolo possa avere una valenza strategica per una nuova economia. Le decisioni che saranno prese nei prossimi mesi possono “bloccare” i modelli di sviluppo che arrecheranno danni permanenti e crescenti ai sistemi ecologici che sostengono la salute delle persone e i mezzi di sussistenza oppure, se affrontate con saggezza, possono promuovere un mondo più sano, più giusto e più verde. Eppure, nel Recovery plan, si parla poco o nulla dell’agricoltura. Secondo l’ultima bozza, il budget destinato alla promozione dell’agricoltura sostenibile ammonta a 1,8 miliardi di euro. Risorse che non sono molte: rispetto a tutto il piano sono l’1% e rispetto alla “missione due” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (quella dedicata alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica) sono il 3,5%.

«E allora di quale transizione ecologica parliamo se non parliamo di agroecologia?», ci spiega Gianni Tamino, biologo docente all’Università di Padova, ex parlamentare europeo e firmatario pochi giorni fa, insieme a 23 scienziati italiani esperti di ambiente e salute, di un appello per i decisori politici che erediteranno il Recovery plan. «L’agricoltura biologica è uno dei perni del cambiamento in chiave ecologica. Bisogna rompere quel filo che fino adesso ha unito la produzione agricola sotto il cappello del modello industrializzato. Negli ultimi cinquanta anni la conversione di ecosistemi naturali alla produzione alimentare o al pascolo è stata la causa principale di perdita di biodiversità», continua il professore. «La più grande minaccia alla biodiversità è il consumo del suolo. Quindi dobbiamo rafforzare la transizione verso un modello agro-ecologico che non alteri il clima, che riduca le emissioni e il consumo di acqua e suolo, che valorizzi le risorse locali promuovendo l’autonomia alimentare del nostro Paese, le cosiddette filiere corte.»

E il biologico risponde pienamente a questi obiettivi tanto che l’Europa lo ha identificato come uno dei pilastri della strategia Farm to Fork e Biodiversità 2030. “L’Italia è leader a livello europeo e le oltre 80mila imprese del settore rappresentano un patrimonio a disposizione del Paese, l’esempio più efficace ed economicamente più sostenibile per guidare la transizione ecologica dell’agricoltura italiana», spiega Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio. «È ciò che chiederemo al nuovo ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, auspicando che il cambio alla guida del ministero di via XX Settembre determini un rilancio della transizione agro-ecologica della nostra agricoltura. Un cambio di marcia rispetto al ministro precedente che non ci ha neanche mai ricevuto» spiega la presidente di FederBio. Una rotta che sarebbe coerente anche con tutta l’attenzione che il premier Draghi ha posto sulla “questione giovani”. «Infatti l’agricoltura bio, ha solo il 20% di titolari di aziende “maturi” – ricorda Mammuccini – in primis perché dal punto di vista professionale è più interessante: bisogna maturare competenze, conoscere il territorio e il suo microclima, avere un approccio innovativo e poi perché è un’opportunità occupazionale anche per le aree interne e marginali».

Tra le proposte principali indicate da FederBio nel corso della recente audizione in Commissione Agricoltura alla Camera: la digitalizzazione e l’innovazione, finalizzate a garantire semplificazione e trasparenza del sistema del bio, ma anche la fiscalità, finalizzata ad agevolare le attività, i prodotti e i servizi che hanno un impatto positivo sull’ambiente verificando la possibilità per le produzioni biologiche certificate di entrare nel mercato dei crediti di carbonio per accelerare e favorire la transizione ecologica dell’agricoltura. […]

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TESTATA: Left 
AUTORE: Francesca Fradelloni
DATA DI PUBBLICAZIONE: 27 Febbraio 2021